De La Tour, part. |
- Firenze, Toscana – Rinuncio al menu di pesce, anche se so essere la specialità della cuoca, e ordino un Brunello di Montalcino del 1995. Non è tra le bottiglie più costose della carta dei vini, ma cinquantacinque euro rappresentano un serio investimento sulla felicità per me. Sulla scaraffatura dei vini rossi esistono varie scuole di pensiero. Il pensiero (non solo) mio è che soprattutto il vino giovane ne ha bisogno, per ossigenarsi e aprirsi velocemente. Anche il sommelier del ristorante in odor di stella è giovane, ma non mi chiede niente, arriva con la bottiglia, la mostra, la stappa, me ne fa assaggiare il contenuto, riempie il fondo (ma proprio il fondo) di un calice neanche panciuto e se ne va. Non lo rivedo per tutta la sera, né per un dialogo sul vino scelto, né per versarlo, e nessuno dei camerieri si sogna di svolgere il ruolo delle ancelle di Bacco, intenti a sfrecciare fra i tavoli dei clienti stranieri. La tiepida serata autunnale sull'Arno è troppo bella per lasciarsela rovinare. Il Brunello me lo coccolo da sola, riempiendo il calice il giusto, facendolo roteare spesso e godendone ogni sfumatura granata, ogni profumo rubato al bosco, ogni lacrima che inesorabilmente cede alla forza di gravità. Bevo circa metà bottiglia e quando, arrivata ormai al dolce, si presenta uno mai visto e mi riempie ridicolmente il bicchiere, non mi lascio impressionare. Niente mance e se torno ordino un Chianti in fiasco.
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