Seppie battute con pasta al nero e crema di lattuga © Brillante-Severina |
Via Veneto, Roma - Secondo giorno a Roma e secondo ristorante, senza anonimato visto che non c'è in ballo la Guida, in un hotel di via Veneto. È anche la sera in cui degli amici di Napoli sono in città e sarebbe bello riuscire a vederli per un saluto. Raggiungerli per l'aperitivo è impossibile perché come ormai accade da alcuni giorni, nel tardo pomeriggio i monsoni portano la pioggia. Armata di ombrello arrivo alla fermata dei taxi e sopravvivo sia alla corsa sia al conducente che mi rivela una forte passione per il vino (aiuttttttt). Dopo un giro inspiegabilmente lungo arriviamo, oltrepasso la porta a vetri, scendo i gradini (obbligatori quando porti i tacchi) e varco con ragionevole titubanza l'ingresso dove però trovo subito il maitre giovane e molto gentile che mi riserva un'accoglienza da manuale. Mi accompagna a un tavolo al margine della sala ma che immagino sia stato scelto per ampiezza e comodità: è infatti inserito in una nicchia e ha il divanetto. Subito dopo arriva il cuoco giapponese per conoscermi. Mi intrattengo volentieri a parlare, anche se sotto la tovaglia i piedi sono attorcigliati (ho fretta ma non voglio che si capisca). Chiedo allo chef quali piatti mi consiglia e lo vedo in imbarazzo, forse in Giappone non si chiede... mi avverte che il più ricco dei tre menu degustazione, da nove portate, richiede tre ore fra preparazione e servizio che sommate ai miei tempi lenti di masticazione mi fanno capire che non è serata. Scelgo il degustazione di mare da quattro portate più una di terra. Mentre bevo uno Champagne e cerco di foderare lo stomaco con piccole sfoglie e tozzi di pane immersi nell'olio, lancio occhiate a tablet e cellulare per scoprire che il primo è isolato e l'altro invece anche. Come faccio a tenermi in contatto con gli amichetti che mi aspettano non so dove nella grande città? Le portate del menu arrivano a ritmo sostenuto (vi va bene che per l'unica volta in vita mia ho fretta): appetizer di crema delicatamente amarognola con gnocco solitario e misticanze, a me, seppia in tenuta carceraria, arrenditi, spaghetto burro e alici con spolvero di tonno giapponese essiccato che in Italia non si trova e neanche si pronuncia perché somiglia a una parolaccia (kazuo bushi), veniamoci incontro (tu non mi schizzi e io mi ti finisco). Pausa, fermate la cucina (più che espressa, ad alta velocità), devo uscire a telefonare... come non detto, il cellulare dell'amica è irraggiungibile, lascio un messaggio in segreteria e ricominciamo. Le due portate successive arrivano alla velocità delle luce e mi viene il sospetto che anche lo chef abbia appuntamento con gli amici dopo cena. A che punto eravamo? Pre dessert, dessert e sono le 23.00 passate. Gradisce un distillato? Magari! Ma devo andare... Anzi no, lo chef vuole venire a sentire come è andata la cena. Sono piemontese cortese ma sincera, è stato tutto buono (magari la prossima volta gli spaghetti del kazuo però li salto) e giù a parlare, raccontare della difficile piazza romana, dei gusti degli sceicchi (già, quando puoi avere tutto, cosa scegli?) e delle sue esperienze sfortunate con i "comunicatori" (tranquillo, io pago...) e scambiare biglietti da visita con inchino e chiedere il conto e trovarci un errore e lasciare la mancia e alzarsi da tavola senza inciampare nella tovaglia. Taaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaxi. Un giovane uomo asiatico vestito come nelle antiche stampa indiane, mi accompagna al taxi. Salgo e finalmente mi attacco al telefono che prima mi mostra l'arrivo di dieci messaggi e poi... muore. Non è possibile! Il tassista riceve una telefonata, è la mamma (sua), va tutto bene. Se gli chiedessi di poter usare il suo cellulare? Così potrei andare al rendez vous con gli amici direttamente, ma no, mi vergogno, mi faccio portare a casa dove potrò mettere in carica il cellulare e chiamarli. Pago senza fare una piega la tariffa mostruosa (son mica Creso, neh), mi arrampico per gli otto piani di scale a piedi sui tacchi favorendo l'amicizia della seppia con il dessert e in stato ormai semi incosciente apro la porta e cerco il caricatore. Squilli, voce di amica che mi chiede dove mi trovo. Non sono ancora partiti e possono venirmi incontro a Castel Sant'Angelo. Metto giù, mi scapicollo in discesa per le scale aggrappata al corrimano come un pappagallo al trespolo e finiti gli interminabili gradini guardo i sanpietrini con occhi nuovi. Quando arrivo al Ponte di Castel Sant'Angelo aguzzo la vista per riconoscere il trio e, facendo penzolare il ciondolo sbirluccicante, scruto ogni macchina che si avvicina creando forse qualche equivoco ...continua (con la versione degli amici)
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