"Il buongusto comprende anche la ghiottoneria che è la preferenza applicata a cibi leggeri, delicati, di poco volume…" Brillat-Savarin
- Monferrato astigiano, Piemonte - L’esterno appariva color bronzo, con riflessi di un pallido verde. Nulla di strano per un flan di zucchine, una crema di piselli o una gelatina di kiwi. Ma per una scaloppa di fegato grasso erano sfumature quantomeno bizzarre.
Sperai si trattasse di un riflesso del giardino vicino al quale la tavola era apparecchiata e tagliai una fetta prudentemente sottile. L’interno non era migliore: nulla di roseo e languidamente arrendevole, ma una massa compatta e soda color ocra.
Il primo boccone, trangugiato sotto lo sguardo di due camerieri e un maitre fin troppo solleciti, rivelò subito il sapore del guasto. I due successivi, non migliori, rafforzarono la sensazione di essere al cospetto di un fegato né fresco, né di prima scelta né cucinato con grande perizia. La polpa poi era interamente percorsa da sottili venuzze violacee che formavano un poco invitante reticolo. Un particolare che aveva certo inciso sul prezzo, al ribasso, di acquisto, ma non su quello scritto sul menu: 24 euro (che restano le quasi cinquantamila delle vecchie lire). Sotto la scaloppa vegetava una triste piramide di cipolline lessate e tagliate a striscioline, sormontata da una catasta di triangolini di pan brioche abbrustoliti che l’umore delle verdure aveva reso mollicci.
Con la mente riandai alle decine di scaloppe mangiate negli anni. Paffute, morbide, rosee e beige, sferiche e lucide, arrendevoli, indecise fra dolce e salato. Tornai al presente e masticai amaro, ma per fortuna il mio, di fegato, non se la prese a male e non ebbi conseguenze. “La vita di un travelling food writer non è sempre un letto di morbido foie gras.” Tamasin Day-Lewis, Where shall we go for dinner?
- Monferrato astigiano, Piemonte - L’esterno appariva color bronzo, con riflessi di un pallido verde. Nulla di strano per un flan di zucchine, una crema di piselli o una gelatina di kiwi. Ma per una scaloppa di fegato grasso erano sfumature quantomeno bizzarre.
Sperai si trattasse di un riflesso del giardino vicino al quale la tavola era apparecchiata e tagliai una fetta prudentemente sottile. L’interno non era migliore: nulla di roseo e languidamente arrendevole, ma una massa compatta e soda color ocra.
Il primo boccone, trangugiato sotto lo sguardo di due camerieri e un maitre fin troppo solleciti, rivelò subito il sapore del guasto. I due successivi, non migliori, rafforzarono la sensazione di essere al cospetto di un fegato né fresco, né di prima scelta né cucinato con grande perizia. La polpa poi era interamente percorsa da sottili venuzze violacee che formavano un poco invitante reticolo. Un particolare che aveva certo inciso sul prezzo, al ribasso, di acquisto, ma non su quello scritto sul menu: 24 euro (che restano le quasi cinquantamila delle vecchie lire). Sotto la scaloppa vegetava una triste piramide di cipolline lessate e tagliate a striscioline, sormontata da una catasta di triangolini di pan brioche abbrustoliti che l’umore delle verdure aveva reso mollicci.
Con la mente riandai alle decine di scaloppe mangiate negli anni. Paffute, morbide, rosee e beige, sferiche e lucide, arrendevoli, indecise fra dolce e salato. Tornai al presente e masticai amaro, ma per fortuna il mio, di fegato, non se la prese a male e non ebbi conseguenze. “La vita di un travelling food writer non è sempre un letto di morbido foie gras.” Tamasin Day-Lewis, Where shall we go for dinner?
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