- USA – Fra i molti libri (di cucina) dei quali non si sentiva la mancanza, spicca “Natural Harvest - A Collection of Semen-Based Recipes”. Sessantun pagine di elogio del seme che neanche i Monty Python, descritto come sottovalutato quanto desiderabile ingrediente di cucina. La recensione trovata sul web è impagabile e recita più o meno così: “Come il buon vino e i formaggi, il sapore del seme è complesso e dinamico. Lo sperma è economico da produrre ed è comunemente disponibile in molti, se non nella maggior parte, di case e ristoranti. Nonostante tutte queste qualità positive, lo sperma rimane trascurato come alimento...” Una vera ingiustizia semenziale! Già si pregusta l’amaro giorno in cui al ristorante camerieri e cuochi descriveranno, oltre a scrocchiante pane di lievito madre, paffuti ravioli fatti in casa, pacifiche trote affumicate in cortile e polli ruspanti attinti direttamente dall’aia, pure le acrobazie sessuali necessarie a produrre l’ingrediente freschissimo della nuova creazione di cucina.
Collezionista di colazioni e fotografa, in dialogo con Anthelme Brillat-Savarin
Critico gastronomico in incognito da 13 anni per una Guida nazionale e gourmet da molto più tempo.
Altre passioni da dichiarare: Borges, Gadda, tè, libri, film, vino, spille vintage, scarpe, arte, musei.
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sabato 24 settembre 2011
Il seme in cucina? No, grazie
“Che cosa s'intende per alimenti? Risposta volgare: L'alimento è tutto ciò che ci nutrisce.” Brillat-Savarin
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mercoledì 21 settembre 2011
Felicità è: tajarin al mirtillo e porcini
“...ecco la gastronomia che è sempre pronta a recare aiuto.” Brillat-Savarin
- Pollone, Piemonte – Oggi mi trovavo per lavoro nel nord del Piemonte. L'appuntamento era in una località imbriccatissima e all'arrivo ero stupita di non essermi persa e di non aver percorso le salite all'indietro. Mi ci voleva un premio! La scelta era tra pranzare in uno dei ristorantini della vicina Biella, tornare a casa mangiando un panino in autogrill (bel premio...) oppure regalarmi un pranzo nell'unico stellato del territorio. Facile indovinare la scelta. Due ore e mezza di puro piacere, al tavolo affacciato sul giardino, con farfalle vivaci che si posavano sui fiori profumati e il canto degli uccellini dagli alberi vicini. Con le bollicine di Caluso l'appetizer, un fiore di zucca ripieno di vellutate verdure, che a ogni boccone sembrava un succulento assaggio di minestrone. Tre gli antipasti: coniglio con maionese di mela e cialda di nocciole squisitissimo, animelle di vitello da slurp con ricotta, olive taggiasche e pomodoro passito, uovo pochè con funghi porcini. Poi, in un crescendo di felicità, tajarin al mirtillo (aggiunto nell'impasto) con funghi porcini e una tagliata di carne al rosmarino da sognarsela di notte per un mese. Il tutto annaffiato da una degustazione di tre vini della zona proposti da una sommelier entusiasta, per un conto di circa 70 euro + mancia. Ammiro gli stellati aperti a pranzo, anche per un solo commensale.
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giovedì 15 settembre 2011
Macellaio e gentiluomo
"La vista abbraccia lo sguardo e ci fa consapevoli...” Brillat-Savarin
- Caluso, Piemonte – E' la mia prima volta a Caluso e alle 10.00 del mattino, dopo un viaggetto di un'ora e mezza, cerco parcheggio a una ragionevole distanza dalle mie mete gourmet e non. Vedo una signora intenta a parcheggiare davanti a una macelleria e la imito. Chiedo anche rassicurazioni (alla signora appena scesa dall'auto): "Scusi, si può lasciare la macchina qui tutto il giorno o c'è il disco orario?" - "La lasci pure" è la veloce risposta. Tutta contenta mi incammino verso il centro del paese in cerca di un buon bar pasticceria dove fare colazione.
Quando verso le 18.00 ritorno alla macchina per partire, il macellaio esce dal negozio e mi dice che erano passati i vigili perchè, ebbene si, lì c'è il disco orario (grazie signora del mattino, neh...). Lui gli aveva però spiegato che mi aveva vista arrivare al mattino, che ero probabilmente lì per lavoro (in effetti...), di essere comprensivi ecc. e così multa evitata. Macellaio e gentiluomo! Chi ha detto che è meglio non impicciarsi degli affari altrui?
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sabato 10 settembre 2011
Uscire dalla crisi con i marron glacé di Gadda
"Nei riguardi dell'economia politica il buongusto è il tratto comune che unisce i popoli per mezzo dello scambio reciproco degli oggetti che servono al consumo giornaliero. Esso fa viaggiare dall'uno all'altro polo provviste d'ogni genere...” Brillat-Savarin
- Italia – Racconta Giuseppe Bertolucci (1) che quando era piccolo la casa dei genitori era frequentata da molti grandi (intellettuali) fra i quali Carlo Emilio Gadda. Il gran lombardo era un buongustaio per predestinazione; le sue opere sono disseminate di citazioni gourmet, per non parlare dell'articolo pubblicato sulla rivista Il gatto selvatico (ideata e diretta negli anni '50 da Attilio Bertolucci) con la sua ricetta per ottenere un buon risotto alla milanese. Bertolucci ricorda che dopo ogni invito a pranzo Gadda "immancabilmente inviava a mia mamma un plateau di marron glacé, che io saccheggiavo, con un bigliettino: <Per scusare le mie eventuali intemperanze verbali>." Se questa civile abitudine venisse riesumata, l'economia nazionale potrebbe tranquillamente reggersi sulla coltura della castagna.
(1) Giuseppe Bertolucci, Cosedadire, 2011
(1) Giuseppe Bertolucci, Cosedadire, 2011
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Il risotto alla milanese di Gadda
"I predestinati del buongusto sono per lo più di statura media, hanno il viso tondo o quadrato, occhi brillanti, fronte piccola, naso corto, labbra carnose e mento tondeggiante.” Brillat-Savarin
- Italia – Carlo Emilio Gadda è sempre stato il mio autore italiano preferito e scoprire che era anche un gourmet me lo ha reso ancora più caro, confermando la teoria dei buongustai per predestinazione. Per chi, dopo l'ebbrezza aurea offerta dal risotto di Gualtiero Marchesi, volesse mettersi ai fornelli per preparare la più milanese delle ricette, ecco la versione gaddiana:
L'approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d'una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po' più scuro, è vero, dopo l'aurato battesimo dello zafferano.
Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del «rame» o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici «interni», ove i lucidi rami più d'una volta figurano sull'ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l'alluminio.
La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.
Burro, quantum prodest, udito il numero de' commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l'appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi.
Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l'aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po' per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè.
Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po' meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro «risotto alla milanese» ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all'Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!
Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all'incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all'ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.
Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.
Tratto da Il gatto selvatico n. 10 - agosto 1955
Dall'Archivio storico ENI
L'approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d'una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po' più scuro, è vero, dopo l'aurato battesimo dello zafferano.
Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del «rame» o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici «interni», ove i lucidi rami più d'una volta figurano sull'ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l'alluminio.
La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.
Burro, quantum prodest, udito il numero de' commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l'appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi.
Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l'aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po' per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè.
Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po' meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro «risotto alla milanese» ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all'Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!
Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all'incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all'ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.
Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.
Tratto da Il gatto selvatico n. 10 - agosto 1955
Dall'Archivio storico ENI
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giovedì 8 settembre 2011
Del perchè si resta single 2
"...tutti coloro che sanno mangiare hanno la bocca pulita a fine pasto: essa si è ripulita o con la frutta o con gli ultimi bicchieri bevuti al dessert.” Brillat-Savarin
- Colline tortonesi, Piemonte – Sono al primo (e ultimo) non appuntamento con un ragazzo. Ceniamo in un ristorante sulle colline vicino a Tortona la cui cucina è decaduta negli anni, ma che negli ambienti conserva il fascino della villa di campagna ottocentesca, con affreschi, boiserie e mobili antichi. La conversazione con il mio commensale non decolla e dimenticherei velocemente la serata se lui, dopo l'ultima portata, non si pulisse i denti con un'unghia come se niente fosse, sotto il mio sguardo un po' attonito. Sarà una regola del Castiglione sfuggita ai più...
"I signori gradiscono una grappa o un digestivo?" - "No!!!!! Il conto presto, devo andare!".
"I signori gradiscono una grappa o un digestivo?" - "No!!!!! Il conto presto, devo andare!".
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mercoledì 7 settembre 2011
Non voglio catene
"Io sono del partito dei neologisti e dei romantici: questi ultimi scoprirono i tesori nascosti: gli altri sono come naviganti che vanno a cercare lontano le provviste di cui hanno bisogno.” Brillat-Savarin
- Nizza Monferrato – A pranzo nel ristorante che si affaccia sulla piazza del mercato. Conosco il posto da quando ero ragazzina e nonostante l'esperienza di oggi non sia stata esaltante (1. malgrado l'ampia sala sia semivuota mi danno il tavolo accanto alla porta ad ante della cucina 2. la suddetta porta viene spalancata dal personale di sala -col piede- circa 10 volte al minuto -le ho contate- con conseguente forsennato sventolio, aria sul mio povero collo e giramento di testa -e di altro- 3. le porzioni si sono molto ridotte rispetto ai miei ricordi: la carne cruda, seppure buona, non è più la cupola di Brunellesche proporzioni e i tajarin, sottili e di giusta cottura, sono ridotti a una matassina che fa venir fame più che placarla 4. ho la spiacevole sensazione che le porzioni ridotte siano un modo per indurmi a ordinare secondo e dolce, senza capire che la posizione del tavolo non mi fa desiderare di rimanere il tempo necessario per gustarmi quattro portate 5. una cucina sempre uguale è rassicurante... soprattutto per la clientela anziana), nonostante tutto ciò (non sono mancati aspetti piacevoli, come il bicchiere di Barbera Superiore Vinchio e Vaglio dalla fornita cantina e vicende esilaranti, come la coppia di nonni del tavolo a fianco che raccontano al nipotino adottivo di esotica nascita le avventure di Paride e intanto gli insegnano il galateo), ebbene preferisco che sopravvivano locali come questo (certi provincialismi si registrano persino negli stellati, quindi a Nizza sono in buona compagnia), piuttosto che vederne un giorno rimpiazzata l'insegna da quella di una grande catena di gelati. Sta succedendo ovunque nei centri storici italiani, con la conseguente messa a morte delle antiche drogherie, pasticcerie, gastronomie, ristorantini, librerie indipendenti ecc., sostituiti da catene alimentari e di abbigliamento che solleticano l'avidità dei proprietari degli immobili pagando affitti altissimi. E l'omologazione dell'offerta e dei comportamenti è garantita.
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domenica 4 settembre 2011
Effetto piercing
“...non ci vogliono tanti preparativi per fare una buona tavola.” Brillat-Savarin
- Asti – Torno sempre volentieri ad Asti, il centro storico è grazioso e in estate arrivano persino i turisti, così mentre si prende un aperitivo al bar (con buoni vini ma tartine da dimenticare) si ha l'impressione di essere in vacanza. Non mancano comunque le avventure gastronomiche demenziali, come quella volta che ho pranzato in un ristorante del centro che cita gli angeli nell'insegna. Ci ero già stata, ma prima che traslocasse nella sede attuale e nel cambio, come a volte accade, il locale ci ha perso. Nell'atmosfera, perchè vorrebbe giocare sul contrasto fra antico (open space e mattoni a vista, belli, rammendo sulla tovaglia, brutto) e moderno (ai tavoli lattee sedie inutilmente girevoli fanno venire il mal di mare) senza riuscirci. Nel servizio, perchè il desiderio di rinnovamento si è esteso anche al personale, trascurando però di prepararlo in modo adeguato. Il cameriere del mio tavolo era un giovane aitante adatto a fare tanti mestieri (bagnino, guardacoste, forestale ecc.) ma non a servire: camminava sul rimbombante parquè con passo marziale enfatizzato da stivaloni a punta alla Easy rider e mentre porgeva i piatti mostrava un piercing che gli trapassava un sopracciglio. Roba da far passare l'appetito. Neanche la cucina offriva consolazione e sembrava un po' disorientata. I buoni sapori della precedente visita sembravano essersi persi, come il suono dei tacchi del cameriere-stallone nell'open space finto trendy.
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venerdì 2 settembre 2011
Piovono aragoste
Fotografia © Brillante-Severina |
“La dieta ha un effetto importante sui sogni.” Brillat-Savarin
- Torino – Non si sa se la Pixart si sia ispirata a loro in Alla ricerca di Nemo o se viceversa i protagonisti di questa storia abbiano ideato l'evasione dopo aver visto il cartone animato, fatto sta che un giorno a Torino le persone che camminavano su un marciapiede si sono viste piovere addosso un buon numero di aragoste, tanto da non saper più se dirsi sveglie e sognanti. Gli arzilli crostacei, le cui gesta sono state immortalate anche dalla stampa cittadina, erano in allegra fuga dalla cucina di un ristorante le cui finestre si affacciavano sulla via. Probabilmente avevano puntato le antenne in direzione Po, con sosta in piazza Castello per un bicerin e poi ai Murazzi per un concerto a suon di nacchere-chele, e avevano come meta finale un tuffo carpiato nel mar Adriatico. Perchè non sono mai sotto la finestra giusta quando c'è un'ittica evasione in corso?
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giovedì 1 settembre 2011
La classe non è Sherry
“Tutti gli uomini, anche quelli che si è convenuto di chiamare selvaggi, sono stati così fortemente tormentati dalla bramosia delle bevande forti, che sono riusciti a procurarsene per quanto limitate fossero le loro cognizioni.” Brillat-Savarin
- Piacenza – Se certe storie uno volesse inventarle, non arriverebbe mai a riprodurre la realtà. Accade in un celebrato e stellato ristorante cittadino che un uomo alla fine di una lauta cena chieda un bicchiere di Sherry per chiudere in bellezza la serata e si senta rispondere che la bottiglia non viene stappata per un solo bicchiere ma solo "venduta intera". Se sia prevista la rateizzazione non si sa. L'uomo rimane basito, anzi è proprio incredulo, ma per fortuna il sommelier non è un essere insensibile e crudele: una vecchia bottiglia di Sherry arrivata da un pezzo al capolinea si materializza sul tavolo e il cliente ottiene l'agognato bicchiere di... svaporato e sabbioso liquido. La classe non è...
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