Collezionista di colazioni e fotografa, in dialogo con Anthelme Brillat-Savarin
Critico gastronomico in incognito da 13 anni per una Guida nazionale e gourmet da molto più tempo.
Altre passioni da dichiarare: Borges, Gadda, tè, libri, film, vino, spille vintage, scarpe, arte, musei.

mercoledì 31 agosto 2011

Nomi e cognomi

“...sono in mano a una cuoca di lusso le cui preparazioni mi guastano lo stomaco.” Brillat-Savarin  
- Roma – Cronaca della cena nello stellato Mirabelle la sera del 13 agosto 2007. È il mio compleanno e decido di restare a Roma anche se sono da sola. Prenoto al Mirabelle con una settimana di anticipo, chiedendo di poter conoscere lo chef la sera della cena e ricevendo una risposta entusiasticamente affermativa.
La sera del 13 salgo in ascensore al ristorante dove mi accoglie una giovane donna che prima mi accompagna a un tavolo in un angolo e poi ci ripensa e mi fa riattraversare il salone (vabbè, l'ambiente, fra specchi tappeti e arredi, è degno di ammirazione e poi sfoggio i sandali col tacco, penso) per un tavolo -migliore- in terrazza. Arriva il maitre, non quello celebre del ristorante ma il suo abbronzato vice, credo. E iniziano le comiche. Lui esordisce rinnegando l’esistenza di un qualsivoglia Menu degustazione (peccato che il sito web all'epoca ne elenchi ben undici: Sole Giove Marte Luna ecc.). Quando poi gli chiedo di poter conoscere Giuseppe Sestito, risponde con supponenza che lo chef è troppo occupato e che non può certo lasciare la cucina (ma io non ho fretta...). 
Nonostante queste belle premesse, ordino i tre piatti più cari della carta. Un po’ perché è il mio compleanno e un po’ perché voglio farmi un parere assaggiando quelli che loro considerano – presumo ingenuamente - i fiori all’occhiello del menu.
Non mi viene servito alcun appetizer, se non un aperitivo - da me richiesto e servito da un cameriere - accompagnato da mignon salati che magari farebbero bella figura al bar, ma non su una tavola stellata. Giungono poi vari tipi di pane e l’antipasto: una discreta scaloppa di fegato d’anatra banalmente contornata di lamponi e tocchetti di pesca. Consumatane con estrema lentezza ormai tre quarti, si presenta, per la prima volta dall’inizio della cena, il sommelier chiedendo se sia magari gradito un vino dolce in abbinamento. Declinata l’offerta, tardiva come certe uve che ben si sarebbero accompagnate alla scaloppa, la scelta per il vino della cena cade su una bottiglia di Verdicchio dei Castelli Jesi Classico Riserva doc, della quale riuscirò a bere solo poco più di un quarto. 
La cena prosegue con tortiglioni di pasta di debole cottura (anzi, crudi) conditi con salsa di pomodoro, polpa di astice e generosissime manciate di sale, seguiti da un piccione in crosta con imbottitura di spinaci di morbidezza inversamente proporzionale alla sapidità, forse per compensare quella eccedente dei tortiglioni. 
Quando il cameriere ritira i piatti non mi lamento, ma il vice maitre viene a provocarmi: “Tutto bene signora?” Il sommelier che si presenta a metà cena, la pasta cruda, il piccione sciapo e stoppaccioso, mi prende in giro? 
Il vice maitre è costernato (dice lui) e arriva a confondersi perché salta fuori che in cucina c’è solo il sous chef di Sestito (io a rovinarmi il compleanno nel suo ristorante e lui a godersi le vacanze in un posto migliore, bravo…). Gli chiedo il nome di questo sous chef (mica per metterlo al muro, mi serve per la scheda della recensione dove lo indico sempre), ma lui rifiuta di rivelarlo, neanche fosse l’ingrediente segreto del piccione in crosta e in risposta al mio sguardo interrogativo sussurra: “devo tutelare il ragazzo”.
Ormai delusa dalla piega che ha preso la serata, gli faccio presente che al momento della prenotazione avevo esplicitamente richiesto di poter conoscere lo chef. Sarebbe stato sufficiente dirmi della sua assenza (avevano il mio cellulare) e io non sarei andata. Come se non fosse lui il responsabile del ristorante ma quel poveraccio del telefonista, il vice maitre mi chiede di rivelargli il nome della persona che ha preso la prenotazione per provvedere personalmente a...  a questo punto io desidero solo andarmene. Di dolci non voglio neanche sentir parlare e il conto finale (scontato dei vilipesi tortiglioni detratti, ma prontamente rimesso in equilibrio con 8 euro addebitati per una bottiglia di acqua minerale mai ordinata e di conseguenza mai arrivata in tavola) è di 120 euro per nulla ma proprio nulla di memorabile, tranne il panorama offerto dalla terrazza, che per fortuna non è l’unica a Roma.
“Spero che vorrà venire nuovamente a trovarci” mi saluta il vice maitre mentre esco e io penso alla battuta di Jane Russel in Gli uomini preferiscono le bionde: “Trattenete il fiato finchè non torno”.

Nessun commento:

Posta un commento